«Tanto per cominciare, Zooey era un giovanotto piccolo, dal corpo estremamente esile. Da dietro (soprattutto dove gli si vedevano le vertebre) sarebbe quasi potuto passare per uno di quegli sparuti bambini di città che ogni estate vengono spediti alle colonie a ingrassarsi e prendere il sole. Visto in primo piano, di faccia o di profilo, era straordinariamente, spettacolosamente bello. La sorella maggiore mi ha pregato di dire che assomigliava all'"esploratore mohicano ebreo-irlandese dagli occhi azzurri che morí tra le vostre braccia al tavolo della roulette di Montecarlo". Secondo un'opinione piú generale e meno campanilistica, a salvare in extremis quel volto dall'eccessiva bellezza, se non addirittura dallo splendore, era un orecchio che sporgeva leggermente piú dell'altro. Per conto mio, comunque, non condivido affatto né l'uno né l'altro di questi punti di vista. Ammetto che il volto di Zooey fosse un volto bellissimo, quasi perfetto. Come tale, naturalmente, era passibile di quella stessa varietà di giudizi scorrevoli, imperterriti e spesso capziosi cui è soggetta ogni autentica opera d'arte. Penso resti solo da aggiungere che una qualunque delle cento minacce giornaliere – un incidente d'auto, un raffreddore di testa, una bugia prima di colazione – avrebbe potuto deturpare o imbruttire la sua generosa bellezza nel giro di un giorno o di un minuto. Ma quello ch'era indeteriorabile, quello che qualcuno ha categoricamente definito una gioia di tipo imperituro, era un autentico esprit impresso su tutto il suo viso, specie negli occhi, dove attirava l'attenzione come una maschera di Arlecchino, e a volte disorientava.»